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ImmagineLa memoria è la principale arma di difesa del genere umano. E’ la memoria che genera l’esperienza e l’esperienza consente di compiere i passi necessari per ascendere la scala del piano evolutivo. Ma la memoria ha anche uno scopo di protezione e difesa. Quando l’uomo la perde. Di fronte agli episodi più cruenti della sua storia. Quelli che generano traumi. Solchi profondi e indelebili nella memoria collettiva che riaffiorano e ci perseguitano di generazione in generazione. Se solo, appunto, un meccanismo benedetto e perverso, non ci consentisse inconsciamente di dimenticare.

Eppure la memoria è un’arma a doppio taglio. Subdola. Perché se è importante dimenticare, è altrettanto importante ricordare. Per evitare che gli errori collettivi si ripetano, che i traumi si ripresentino sotto diverse spoglie, incarnati in spettri di nuova forma. Purtroppo è questo il difetto della memoria. Ci aiuta molto spesso a dimenticare scomparendo ma così facendo cancella le prove della nostra degenerazione.

La colpa è anche un po’ degli eserciti della memoria. Spesso stanchi di correre e combattere. Vecchi e stanchi come veterani di guerra ormai in pensione. E così il racconto si alza nell’aria sempre più debole e flebile. Si diffonde anemico e si perde rapidamente nel vociare collettivo.

Ogni anno celebriamo la giornata della memoria per raccontare di nuovo il dramma dell’Olocausto ebraico. Lo facciamo attraverso gli strumenti tradizionali dei dibattiti, dei saggi lunghi, seri, ponderosi. Lo facciamo attraverso romanzi costruiti in modo impeccabile, seguendo le regole editoriali più sperimentate. Lo facciamo, insomma, in modo noioso e scontato. In questo modo non arriviamo a coloro che dovrebbero ascoltare. I giovani adulti e quelle generazioni di nativi digitali che sono cresciuti a pane e videogiochi, che amano il ritmo sincopato delle serie televisive, che sfogliano famelici le tavole dei fumetti. A questi giovani, coloro che saranno chiamati a raccogliere la fiaccola della memoria, il messaggio della giornata dedicata alla Shoah non arriva, oppure arriva lontano, distorto, spesso incomprensibile.

Per questo la Rizzoli ha accolto subito con grande entusiasmo la mia proposta per cambiare le regole del gioco, per sparigliare le carte, per uscire dal solco del politicamente corretto. E’ vero che ormai, dopo la Bibbia, l’Odissea e la Divina Commedia tutte le storie possibili sono state scritte. Ma la differenza la fa sempre il modo in cui le storie vengono raccontate, l’ottica attraverso la quale le vicende vengono osservate. Diceva Robert McKee “Gli autori ansiosi e privi di esperienza obbediscono alla regole. Quelli ribelli e non istruiti infrangono le regole. Gli artisti padroneggiano la forma”.

Molti avevano scritto romanzi storici ambientati nell’Antica Roma ma nessuno aveva mai provato a considerare i sacerdoti dell’Impero come dei progenitori degli X Men. Molti avevano provato a raccontare le vicende di Jack lo squartatore ma nessuno aveva mai immaginato che potesse essere una donna. Molti avevano scritto storie sulle Crociate ma nessuno aveva mai raccontato le vicende di un crociato musulmano. Molti avevano previsto che Internet diventasse il mondo alternativo della razza umana ma nessuno aveva mai provato a immaginare cosa potrebbe succedere se il diavolo distogliesse l’attenzione dagli umani per tentare le anime dei loro avatar.

Molti avevano scritto romanzi dedicati all’Olocausto ma…

Ma nessuno aveva mai immaginato un serial killer all’interno di un campo di concentramento.

L’ANGELO DI MAUTHAUSEN nasce come una sfida. Una sfida ai canoni narrativi, una sfida alla struttura lineare di una storia, alle sue regole editoriali classiche. E’ un romanzo che non racconta quello che dovrebbe essere raccontato, quello che un critico letterario vorrebbe che si scrivesse sulla Shoah per poter celebrare l’ennesimo, bravo cantore di morte. L’ANGELO DI MAUTHAUSEN  racconta quello che accadde davvero. Senza censure, senza filtro nella scelta delle aggettivazioni ma, soprattutto, seguendo uno schema narrativo diverso.

Il romanzo non è strutturato in capitoli ma in livelli. Più i protagonisti si addentrano nell’oscurità in cui il killer vuole condurli e più le regole del gioco si fanno più dure, più il gioco si fa difficile, più il buio si fa più buio. Come in un videogioco.

Già. Accostare un videogioco alla Shoah. Anatema!

Lo so, è un’impresa ardita. Che allungherà la lista dei miei detrattori. Ma forse allungherà anche la lista dei lettori che non conoscono veramente cosa accadde nella prima metà del ‘900 del secolo scorso in Europa. O che pensano che ciò che gli hanno detto a scuola sia alla fine un’esagerazione perché al mondo di cose brutte ne accadono tante.

L’ANGELO DI MAUTHAUSEN è costruito attraverso le regole del thriller. Di quelli più duri, spietati. La sua lettura non è una passeggiata di salute. Il lettore viene preso a pugni nello stomaco fin dalle prime righe e il fantasma del narratore non smette di picchiare fino alla fine. Il lettore può decidere se arrendersi prima o andare fino in fondo. E se accadrà, chiudendo il libro dopo la parola FINE, tutto non sarà più come prima. Come è accaduto per l’autore.

Ho lavorato un anno sulle prove, i documenti, le immagini dei campi di concentramento. All’inizio ero partito con l’idea di calcare la mano per rendere tutto più attraente e appassionante. Volevo attirare il lettore in modo che non si staccasse più dalla pagina. Eppure ad un certo punto mi sono accorto che stavo omettendo, stavo tagliando, stavo tralasciando. Perché la verità che si parava di fronte ai miei occhi era di gran lunga peggiore, più terribile e incomprensibile del peggiore dei romanzi horror.

L’ANGELO DI MAUTHAUSEN è una lunga camminata nei meandri più oscuri dell’inferno delle deviazioni umane. La farete in compagnia di un giovane ufficiale della Gestapo e di un prigioniero ebreo fuori di testa. Due ottiche diametralmente opposte attraverso le quali assisterete alle stesse vicende accorgendovi di quanto sia incomprensibile la ragione del male. Soprattutto sapendo che dominò l’Europa per un interminabile ventennio. Le psicologie dei due protagonisti corrono in parallelo per tutta la storia, apparentemente senza mai convergere. Un duello psicologico serrato che viene messo alla prova da un avversario ostinato, implacabile. Che ha un obiettivo preciso.

La prima persona a cui ho raccontato l’idea de L’ANGELO DI MAUTHAUSEN  è stata Andrea Frediani. Eravamo appena usciti da un liceo romano nel quale avevamo raccontato ad una folta platea di ragazzi le regole del romanzo storico. Andrea è stato il primo ad usare il termine ‘’geniale’’. Glielo devo riconoscere anche se, per motivi di concorrenza editoriale, non potrà essere mai scritto da nessuna parte. Poi è stata la volta di Daniele Pinna, il mio agente letterario, che ha creduto fortemente nell’idea spingendola fino ad arrivare sotto alle mura dell’imponente castello della Rizzoli. Mi sarei aspettato riluttanza, diffidenza. E invece ho trovato in Stefano Izzo un editor capace di cogliere l’assoluta novità della proposta. Con un entusiasmo perfino maggiore del mio. Oserei dire contagioso. A giudicare dal tifo che mi comunicava la mia editor Caterina Campanini man mano che si addentrava nelle pieghe della storia per l’editing editoriale.

L’ANGELO DI MAUTHAUSEN  nasce quindi da un lavoro di squadra in cui queste persone hanno giocato un ruolo pari a quello dell’autore. E per questo non finirò mai di ringraziarle.

Durante la stesura del romanzo mi sono fatto tanti nuovi amici. I bambini senza nome del Blocco 11. Sentivo la presenza dei loro fantasmi benevoli nella stanza mentre, al buio, ticchettavo sulla tastiera del mio pc. Mi piace credere che sorridessero mentre, almeno con la fantasia, i loro carnefici pativano le pene dell’inferno nella storia che stavo scrivendo. Non posso aggiungere altro per non rovinare la sorpresa al lettore.

Vi lascio dunque a L’ANGELO DI MAUTHAUSEN. A un campo di concentramento isolato dalla neve. A un serial killer che uccide soldati tedeschi seguendo i versi della Torah. A un ufficiale della Gestapo che cerca di fermarlo. A un prigioniero ebreo che riesce a vedere i demoni. A una bambina che…

Roberto Genovesi

Maya permettendo sarà un intenso 2013. Ho appena terminato il mio nuovo romanzo – circa trecentosessanta cartelle – che la Newton Compton ha deciso di pubblicare nella prima metà del prossimo anno. Verosimilmente a aprile 2013. Questa volta mi sono spinto in Terrasanta provando naturalmente a raccontare le Crociate in modo molto diverso da quanto fatto fino ad ora ma soprattutto provando a raccontare le gesta di un Templare davvero diverso da tutti gli altri. La storia prende le mosse dalla battaglia di Hattin nell’Anno del Signore 1187 e termina nel corso dell’arrivo a Gerusalemme di Federico di Svevia avvenuto il 19 Rabi Ath-Thani del 626° anno dall’Egira. Naturalmente questi due importanti eventi storici universalmente riconosciuti sono episodi collaterali del romanzo anche se hanno una certa importanza poiché ho ne sono causa o ne sono conseguenza. Tutto quello che accade nel mezzo, naturalmente, lo leggerete nel libro. Nelle prossime settimane altre anticipazioni sulla trama e sui personaggi storici coinvolti. Anche questa volta ho lavorato parecchio sulle fonti, sui documenti dell’epoca e sui profili dei protagonisti di quel periodo. Ho camminato per le strade di Bisanzio, ho assaporato aria frizzante dalle torri della fortezza dell’Alamut, ho fatto la guardia sui merli di una precettoria templare, ho ascoltato le parole dei saggi della Magna Curia, ho sputato la sabbia rovente della piana di Tiberiade e ho sussurrato nei cunicoli sotterranei di Gerusalemme. C’è molta carne al fuoco ma, soprattutto, c’è lo sguardo allucinato e distorto dello scrittore che prova a leggere tra le pieghe della Storia cose e fatti che alla Storia stessa sono sfuggiti. Anche se, con un occhio attento alle parole che ho usato, potreste già intuire la strada che ho voluto percorrere. Spero di non deludervi.

La copertina del romanzo. In tutte le librerie.

Perché proprio «La Mano Sinistra di Satana»? Sono convinto che è la prima domanda che vi è balenata in testa guardando la copertina. A Jack lo Squartatore, nella sua apparentemente breve carriera di serial killer (e sul ‘breve’ ci torneremo in un altro post), la stampa del tempo ha affibbiato numerosi nomignoli più o meno grotteschi, più o meno evocativi, più o meno terrificanti. Ma tutti i testimoni concordavano sulla descrizione di un “uomo di bassa statura, con un cappotto scuro e con una valigia nera nella mano sinistra”. Da questo particolare, visto che la valigetta probabilmente conteneva i ”ferri del mestiere”, ecco il nome scelto da un anonimo cronista locale. Forse il più suggestivo: la mano sinistra di Satana.

Detto questo il romanzo non può essere letto come un semplice thriller vittoriano e nemmeno come l’ennesima, per quanto debba ammettere inconsueta (originale lo lascio al buon cuore del recensore), soluzione ai delitti di Whitechapel.

Sono almeno tre i livelli di lettura della storia. Il primo naturalmente è quello più superficiale e accattivante del romanzo poliziesco con sfumature esoteriche. Alla fine dell’800 in Europa e soprattutto in Inghilterra si andava diffondendo la moda delle pratiche arcane. Sbocciavano sette come margherite, si affacciavano alla ribalta della cronaca mondana medium di ogni età, sesso e specializzazione che diventavano sovente i protagonisti delle pruriginose conversazioni pomeridiane di mogli annoiate o giovani riccastri e nullafacenti. Perfino le prime tecniche scientifiche di indagine venivano scambiate per prove di magia nera. Tutti i giornali parlavano degli esperimenti di Sir Francis Galton che provava a codificare le prime impronte delle dita sugli oggetti o a raccogliere i suoni che si imprimevano nei solchi lungo i muri degli ambienti chiusi come fossero superfici in vinile. Tutti i giornali commentavano le affermazioni di Sir Oliver Lodge che teneva a battesimo negli ultimi anni del secolo una nuova disciplina in bilico tra scienza e magia: la psicometria. Ma un’aura di magia ed esoterismo permeava anche la vita quotidiana della gente comune. Una sorta di contraltare alla prepotente diffusione della tecnologia voluta dalla rivoluzione industriale. Jack una volta scrisse in una delle sue lettere “un giorno il mondo capirà che io aperto il ventesimo secolo” e probabilmente è proprio dal contrasto tra il vecchio e il nuovo, tra l’arcano e il metallo, tra il vapore delle locomotive e i primi motori a scoppio, dalla loro incomunicabilità che nasce la figura del più celebre assassino seriale dell’era moderna. Una sorta di virus di carne e di ossa che l’opinione pubblica sembra per lunghi mesi investire del ruolo di vendicatore di una società bigotta e borghese che non è capace di metabolizzare i crimini che la stanno portando al progresso se non attraverso l’eliminazione delle sue scorie: il proletariato urbano. Wilfred Gayborg, figlioccio di Galton e allievo di Lodge e psicometrista della prima ora, in questo contesto, attraverso la scelta della narrazione al presente e in prima persona, diventa il testimone di questa mutazione. Uno sguardo disincantato, pessimista, disgustato, assente di un uomo che pare voglia portare la croce di un peccato che non potrà mai essere lavato. E qui accediamo al secondo livello di lettura del romanzo, quello di carattere politico e sociale. Verso la fine dell’800 Londra è il cuore di un sommovimento chiamato Fabianesimo, la pietra angolare di ciò che il mondo di lì a poco chiamerà socialismo. Ma Gayborg, nonostante i suoi migliori amici, un giovanissimo ed acerbo H.G.Wells e un già irascibile e vanitoso George Bernard Shaw cerchino di convincerlo, non si fa ammaliare dai discorsi proclamati al caldo dei salotti buoni nel tintinnare di calici. Gayborg è un uomo fuori dal mondo, figlio di un ufficiale inglese morto suicida e di una indiana, ma ciò non gli impedisce di osservare lo scenario che lo avviluppa e che è fatto e si nutre delle sue stesse contraddizioni. Una rivoluzione che non nasce dalla rivolta popolare ma dai logorroici discorsi dei capobastone della borghesia illuminata non lo convince, non lo attira. Davanti al suo sguardo allucinato scorrono i destini delle vittime di Jack che corrono, urlano e tremano soffocate da una colonna sonora fatta di titoli di giornale urlati, scioperi rumorosi, serrate ancora inutili e maldestre. Le vittime sacrificali della classe proletaria che ancora una volta diventa lo strumento per il riposizionamento del potere economico e politico.

In tutto questo pessimismo grondante forse una fiammella di speranza resta accesa. Quella dell’amore pericoloso, complesso, struggente tra quest’uomo che non riesce a trovare il coraggio di suicidarsi e una delle tante prostitute dell’Inferno londinese. Una donna sulla quale Jack ha messo ormai gli occhi e che, ad un certo punto, scompare. La vicenda sentimentale tra Wilfred Gayborg e Jacqueline è stato il vero momento catartico della scrittura. Ho sofferto, pianto, sperato con Wilfred Gayborg e a lunghi tratti ho provato ad essere lui. Ad anticipare le sue mosse e le sue scelte.

Per questo non aspettatevi solo un thriller, non aspettatevi solo un romanzo gotico, non aspettatevi solo un romanzo storico. Fate come ho fatto io. Aprite il libro e poi gli occhi. Vi ritroverete nel corpo di un investigatore psicometrista che riesce a vedere la vita delle cose, ma non a comprendere la sua, che vive in un mondo che disprezza profondamente ma del quale inevitabilmente si nutre, che non sa cosa sia l’amore, fino a quando non inizia a sfuggirgli.