Il calendario delle presentazioni de L’ANGELO DI MAUTHAUSEN (RIZZOLI)
Festival delle Storie, Valle del Comino, Villa Latina, Martedì 26 agosto ore 23.
Vigamus, Museo del Videogioco, Roma, Sabato 20 settembre ore 15,30.
La memoria è la principale arma di difesa del genere umano. E’ la memoria che genera l’esperienza e l’esperienza consente di compiere i passi necessari per ascendere la scala del piano evolutivo. Ma la memoria ha anche uno scopo di protezione e difesa. Quando l’uomo la perde. Di fronte agli episodi più cruenti della sua storia. Quelli che generano traumi. Solchi profondi e indelebili nella memoria collettiva che riaffiorano e ci perseguitano di generazione in generazione. Se solo, appunto, un meccanismo benedetto e perverso, non ci consentisse inconsciamente di dimenticare.
Eppure la memoria è un’arma a doppio taglio. Subdola. Perché se è importante dimenticare, è altrettanto importante ricordare. Per evitare che gli errori collettivi si ripetano, che i traumi si ripresentino sotto diverse spoglie, incarnati in spettri di nuova forma. Purtroppo è questo il difetto della memoria. Ci aiuta molto spesso a dimenticare scomparendo ma così facendo cancella le prove della nostra degenerazione.
La colpa è anche un po’ degli eserciti della memoria. Spesso stanchi di correre e combattere. Vecchi e stanchi come veterani di guerra ormai in pensione. E così il racconto si alza nell’aria sempre più debole e flebile. Si diffonde anemico e si perde rapidamente nel vociare collettivo.
Ogni anno celebriamo la giornata della memoria per raccontare di nuovo il dramma dell’Olocausto ebraico. Lo facciamo attraverso gli strumenti tradizionali dei dibattiti, dei saggi lunghi, seri, ponderosi. Lo facciamo attraverso romanzi costruiti in modo impeccabile, seguendo le regole editoriali più sperimentate. Lo facciamo, insomma, in modo noioso e scontato. In questo modo non arriviamo a coloro che dovrebbero ascoltare. I giovani adulti e quelle generazioni di nativi digitali che sono cresciuti a pane e videogiochi, che amano il ritmo sincopato delle serie televisive, che sfogliano famelici le tavole dei fumetti. A questi giovani, coloro che saranno chiamati a raccogliere la fiaccola della memoria, il messaggio della giornata dedicata alla Shoah non arriva, oppure arriva lontano, distorto, spesso incomprensibile.
Per questo la Rizzoli ha accolto subito con grande entusiasmo la mia proposta per cambiare le regole del gioco, per sparigliare le carte, per uscire dal solco del politicamente corretto. E’ vero che ormai, dopo la Bibbia, l’Odissea e la Divina Commedia tutte le storie possibili sono state scritte. Ma la differenza la fa sempre il modo in cui le storie vengono raccontate, l’ottica attraverso la quale le vicende vengono osservate. Diceva Robert McKee “Gli autori ansiosi e privi di esperienza obbediscono alla regole. Quelli ribelli e non istruiti infrangono le regole. Gli artisti padroneggiano la forma”.
Molti avevano scritto romanzi storici ambientati nell’Antica Roma ma nessuno aveva mai provato a considerare i sacerdoti dell’Impero come dei progenitori degli X Men. Molti avevano provato a raccontare le vicende di Jack lo squartatore ma nessuno aveva mai immaginato che potesse essere una donna. Molti avevano scritto storie sulle Crociate ma nessuno aveva mai raccontato le vicende di un crociato musulmano. Molti avevano previsto che Internet diventasse il mondo alternativo della razza umana ma nessuno aveva mai provato a immaginare cosa potrebbe succedere se il diavolo distogliesse l’attenzione dagli umani per tentare le anime dei loro avatar.
Molti avevano scritto romanzi dedicati all’Olocausto ma…
Ma nessuno aveva mai immaginato un serial killer all’interno di un campo di concentramento.
L’ANGELO DI MAUTHAUSEN nasce come una sfida. Una sfida ai canoni narrativi, una sfida alla struttura lineare di una storia, alle sue regole editoriali classiche. E’ un romanzo che non racconta quello che dovrebbe essere raccontato, quello che un critico letterario vorrebbe che si scrivesse sulla Shoah per poter celebrare l’ennesimo, bravo cantore di morte. L’ANGELO DI MAUTHAUSEN racconta quello che accadde davvero. Senza censure, senza filtro nella scelta delle aggettivazioni ma, soprattutto, seguendo uno schema narrativo diverso.
Il romanzo non è strutturato in capitoli ma in livelli. Più i protagonisti si addentrano nell’oscurità in cui il killer vuole condurli e più le regole del gioco si fanno più dure, più il gioco si fa difficile, più il buio si fa più buio. Come in un videogioco.
Già. Accostare un videogioco alla Shoah. Anatema!
Lo so, è un’impresa ardita. Che allungherà la lista dei miei detrattori. Ma forse allungherà anche la lista dei lettori che non conoscono veramente cosa accadde nella prima metà del ‘900 del secolo scorso in Europa. O che pensano che ciò che gli hanno detto a scuola sia alla fine un’esagerazione perché al mondo di cose brutte ne accadono tante.
L’ANGELO DI MAUTHAUSEN è costruito attraverso le regole del thriller. Di quelli più duri, spietati. La sua lettura non è una passeggiata di salute. Il lettore viene preso a pugni nello stomaco fin dalle prime righe e il fantasma del narratore non smette di picchiare fino alla fine. Il lettore può decidere se arrendersi prima o andare fino in fondo. E se accadrà, chiudendo il libro dopo la parola FINE, tutto non sarà più come prima. Come è accaduto per l’autore.
Ho lavorato un anno sulle prove, i documenti, le immagini dei campi di concentramento. All’inizio ero partito con l’idea di calcare la mano per rendere tutto più attraente e appassionante. Volevo attirare il lettore in modo che non si staccasse più dalla pagina. Eppure ad un certo punto mi sono accorto che stavo omettendo, stavo tagliando, stavo tralasciando. Perché la verità che si parava di fronte ai miei occhi era di gran lunga peggiore, più terribile e incomprensibile del peggiore dei romanzi horror.
L’ANGELO DI MAUTHAUSEN è una lunga camminata nei meandri più oscuri dell’inferno delle deviazioni umane. La farete in compagnia di un giovane ufficiale della Gestapo e di un prigioniero ebreo fuori di testa. Due ottiche diametralmente opposte attraverso le quali assisterete alle stesse vicende accorgendovi di quanto sia incomprensibile la ragione del male. Soprattutto sapendo che dominò l’Europa per un interminabile ventennio. Le psicologie dei due protagonisti corrono in parallelo per tutta la storia, apparentemente senza mai convergere. Un duello psicologico serrato che viene messo alla prova da un avversario ostinato, implacabile. Che ha un obiettivo preciso.
La prima persona a cui ho raccontato l’idea de L’ANGELO DI MAUTHAUSEN è stata Andrea Frediani. Eravamo appena usciti da un liceo romano nel quale avevamo raccontato ad una folta platea di ragazzi le regole del romanzo storico. Andrea è stato il primo ad usare il termine ‘’geniale’’. Glielo devo riconoscere anche se, per motivi di concorrenza editoriale, non potrà essere mai scritto da nessuna parte. Poi è stata la volta di Daniele Pinna, il mio agente letterario, che ha creduto fortemente nell’idea spingendola fino ad arrivare sotto alle mura dell’imponente castello della Rizzoli. Mi sarei aspettato riluttanza, diffidenza. E invece ho trovato in Stefano Izzo un editor capace di cogliere l’assoluta novità della proposta. Con un entusiasmo perfino maggiore del mio. Oserei dire contagioso. A giudicare dal tifo che mi comunicava la mia editor Caterina Campanini man mano che si addentrava nelle pieghe della storia per l’editing editoriale.
L’ANGELO DI MAUTHAUSEN nasce quindi da un lavoro di squadra in cui queste persone hanno giocato un ruolo pari a quello dell’autore. E per questo non finirò mai di ringraziarle.
Durante la stesura del romanzo mi sono fatto tanti nuovi amici. I bambini senza nome del Blocco 11. Sentivo la presenza dei loro fantasmi benevoli nella stanza mentre, al buio, ticchettavo sulla tastiera del mio pc. Mi piace credere che sorridessero mentre, almeno con la fantasia, i loro carnefici pativano le pene dell’inferno nella storia che stavo scrivendo. Non posso aggiungere altro per non rovinare la sorpresa al lettore.
Vi lascio dunque a L’ANGELO DI MAUTHAUSEN. A un campo di concentramento isolato dalla neve. A un serial killer che uccide soldati tedeschi seguendo i versi della Torah. A un ufficiale della Gestapo che cerca di fermarlo. A un prigioniero ebreo che riesce a vedere i demoni. A una bambina che…
Roberto Genovesi
L’evento è di quelli da non perdere. Torna in edizione italiana Il Corridoio Nero di Michael Moorcock. Si tratta di uno dei testi paradigmatici della new wave britannica, quella corrente letteraria legata al fantastico che, partendo dalle pagine della rivista New World di cui Moorcock fu direttore, rappresentò l’elemento di rottura, per contenuti ma soprattutto linguaggi, rispetto alla hard science fiction imperante. Sperimentale fino all’eccesso la new wave reinventò i canoni del racconto fantastico, ne riformulò gli obiettivi stressandone i contenuti politici e sociali, ne ripensò la formula lessicale spogliandola dagli orpelli barocchi che le pesanti astronavi della fantascienza classica si tiravano dietro forse anche per mascherare con le loro immense sagome storie di cappa e spada vestite d’argento. Le regole della new wave conferiscono nuova dignità politica al fantastico rafforzandone l’autorevolezza nel panorama culturale europeo. Dunque la ripubblicazione de Il Corridoio Nero ben si colloca in un disegno di riscoperta filologica della storia della fantascienza degli anni ’60 e ’70. Tutto bellissimo, dunque. Operazione encomiabile, supportata da contributi pubblicistici interessanti (anche se un terzo del volume forse è un po’ troppo). Ma…ma quella quarta di copertina. Chi ha scritto la quarta di copertina de Il Corridoio Nero? Chi ha potuto scrivere la frase “La terra scoppiava, rigurgitando disastri come in un romanzo di Alan Altieri”? Premesso che le introduzioni comparative hanno esalato l’ultimo respiro alla fine degli anni ’80 quando la fantascienza ha ,a sua volta, smesso di essere anche in Italia un genere amatoriale. Tuttavia, ammettendone la contingente utilità (per assurdo o, come si potrebbe dire, per ipotesi di scuola), la prefazione/postafazione/introduzione comparativa ha una sola regola inviolabile: il tempo. Avete mai letto un commento in cui sia scritto “Le cartoline de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni ricordano le descrizioni minuziose delle campagne italiane del Verga”? No. E perché? Semplicemente perché Verga è arrivato dopo Manzoni e semmai è stato lui a ispirarsi al padre di Fermo e Lucia. Ora, con tutto l’affetto, la stima e il rispetto per Alan Altieri (che reputo uno dei migliori scrittori italiani del fantastico assieme a Valerio Evangelisti) come si fa a dire che uno dei primi romanzi di Moorcock ”ricorda” i romanzi di Altieri? Tra i due ci passano circa quindici anni. Probabilmente anche Altieri sarà inorridito nel leggere questo passaggio. Perché oltre ad essere un grande scrittore è anche una persona intelligente. Non come il redattore di passaggio che, all’insaputa di Franco Forte e Giuseppe Lippi, ha vergato la quarta de Il Corridoio Nero. Detto questo, non voglio farvi perdere altro tempo. Usatelo per correre in edicola a comprare il libro. E’ un piccolo pezzo di storia della fantascienza moderna. Magari coprite la quarta con un adesivo. Per non rabbrividire ad ogni lettura.
I miei lettori sanno che è mia abitudine accompagnare l’uscita di un nuovo romanzo con iniziative multimediali di lancio, presentazioni e un generale grande entusiasmo. Molti si saranno dunque meravigliati dell’insolito silenzio che ha preceduto e seguito il lancio de Il Templare Nero.
Il 17 marzo, un pugno di giorni prima dell’uscita del libro, uno dei miei 4 gatti ha contratto un virus rarissimo che gli ha paralizzato completamente la deglutizione. Dopo molti accertamenti, visite, ricoveri, corse ai laboratori di analisi nei posti più sperduti della provincia, pianti e assegni staccati, i veterinari consultati si sono trovati tutti d’accordo: «le possibilità di sopravvivenza sono ridotte al 5%, questo è un virus che non perdona. Si può solo sperare che il gatto resista per almeno 40 giorni, il tempo di vita del virus, per poi riprendersi con le sue forze. Ma per questo occorre che un umano si preoccupi di alimentarlo con cibo liquido ogni due ore. Perché è questo l’aspetto più drammatico di questa malattia, il gatto da solo non può farcela».
Le scelte erano dunque solo due. Lasciare morire il mio gatto o abbandonare il computer, l’agenda degli appuntamenti, il lavoro e dedicarmi solo a lui per almeno due mesi.
Pulce ha 12 anni. Lo trovai nel giardino condominiale che aveva solo una settimana. Era in condizioni pietose. Infestato dalle pulci, con un occhio scoppiato e la quinta e sesta vertebra fuse tra loro che già allora lo facevano camminare come un Pinocchio malriuscito. Mi chiamò miagolando a perdifiato per due giorni e due notti per costringermi ad andare a prenderlo. Da allora questo piccolo, rachitico e malconcio gatto nero cieco da un occhio è la luce della mia casa e l’essere peloso a cui mi sia più affezionato in tutta la mia vita.
Per questo Il Templare Nero ha scelto di restare in silenzio, di rinunciare alle interviste, agli articoli, alle presentazioni. Il suo autore ha passato giorni e notti insonni a contare i grammi di pappa e i ml di acqua che riusciva a mandare lentamente nella gola del suo micio. Sono passati quasi tre mesi da allora. Tre mesi terribili, per certi versi drammatici ma anche indimenticabili perché hanno sancito un legame indissolubile e definitivo tra un uomo e un animale.
Mentre scrivo Pulce sta bevendo da solo dalla fontanella dopo aver ingoiato con grande appetito una quarantina di croccantini. Tutto da solo, finalmente. Dopo una guerra di nervi in cui ai successi si susseguivano spesso improvvise e inaspettate ricadute. Certo, continua a avere i calcoli, la cataratta, l’artrosi cronica e una fastidiosa gengivite che non gli permette di riempirsi la pancia come vorrebbe ma è felice di vivere con la famiglia di umani che lo ha adottato tanti anni fa e questo mi basta. Anche se ora ha un padrone con quasi dieci chili di meno.
Ora che Pulce è tornato a trotterellare per casa Il Templare Nero può imbracciare di nuovo la sua spada. Il mio gatto nero vale molto di più di tutti i libri che ho scritto e di tutti quelli che scriverò in futuro. E poi la prima edizione del romanzo se n’è andata da sola in due mesi senza che io facessi nulla. Forse perché i gatti neri portano fortuna.
Maya permettendo sarà un intenso 2013. Ho appena terminato il mio nuovo romanzo – circa trecentosessanta cartelle – che la Newton Compton ha deciso di pubblicare nella prima metà del prossimo anno. Verosimilmente a aprile 2013. Questa volta mi sono spinto in Terrasanta provando naturalmente a raccontare le Crociate in modo molto diverso da quanto fatto fino ad ora ma soprattutto provando a raccontare le gesta di un Templare davvero diverso da tutti gli altri. La storia prende le mosse dalla battaglia di Hattin nell’Anno del Signore 1187 e termina nel corso dell’arrivo a Gerusalemme di Federico di Svevia avvenuto il 19 Rabi Ath-Thani del 626° anno dall’Egira. Naturalmente questi due importanti eventi storici universalmente riconosciuti sono episodi collaterali del romanzo anche se hanno una certa importanza poiché ho ne sono causa o ne sono conseguenza. Tutto quello che accade nel mezzo, naturalmente, lo leggerete nel libro. Nelle prossime settimane altre anticipazioni sulla trama e sui personaggi storici coinvolti. Anche questa volta ho lavorato parecchio sulle fonti, sui documenti dell’epoca e sui profili dei protagonisti di quel periodo. Ho camminato per le strade di Bisanzio, ho assaporato aria frizzante dalle torri della fortezza dell’Alamut, ho fatto la guardia sui merli di una precettoria templare, ho ascoltato le parole dei saggi della Magna Curia, ho sputato la sabbia rovente della piana di Tiberiade e ho sussurrato nei cunicoli sotterranei di Gerusalemme. C’è molta carne al fuoco ma, soprattutto, c’è lo sguardo allucinato e distorto dello scrittore che prova a leggere tra le pieghe della Storia cose e fatti che alla Storia stessa sono sfuggiti. Anche se, con un occhio attento alle parole che ho usato, potreste già intuire la strada che ho voluto percorrere. Spero di non deludervi.
Il romanzo La Mano sinistra di Satana ha una sua pagina ufficiale anche su Facebook dove potete trovare mappe, brani musicali, informazioni e curiosità sulla Londra Vittoriana e sulle indagini archeologiche affrontate da Wilfred Gayborg oltre alle schede con immagini di tutti i personaggi storici che compaiono nel libro.
Londra, 1888. Un uomo ha il potere di vedere efferati delitti del passato. Wilfred Gayborg è infatti un investigatore diverso da tutti gli altri. È uno psicometrista capace di “vedere” la storia di un’arma del delitto stringendola tra le mani. Tutti a Scotland Yard lo guardano con sospetto per le sue azzardate tecniche d’indagine, che si muovono nella zona d’ombra tra scienza e magia. Eppure Gayborg, grazie alle sue inquietanti scoperte, che risolvono sorprendentemente casi di efferati omicidi, occupa le pagine dei quotidiani. È un uomo dal passato tragico, segnato dalla morte, un’anima che vive nell’ombra, non concede nulla ai sentimenti e si mischia solo con le prostitute che popolano le vie della Londra notturna e più povera. Proprio quelle prostitute su cui si sta accanendo un misterioso serial killer, che la cronaca ha ribattezzato col nome di Jack lo Squartatore. E quando le vittime nei vicoli bui di Whitechapel cominciano ad aumentare, perfino i più scettici si convincono che Gayborg sia l’unico in grado di far luce sull’identità dello spietato assassino. Ma Gayborg deve fare presto, perché l’ombra di Jack si sta avvicinando pericolosamente all’unica donna che lui abbia mai amato…